Meno si vede più si crede, diceva il misterioso Jacques Tourneur, regista di origini francesi ma statunitense d’adozione, autore tra gli anni ’40 e ’60 di alcuni tra i più begli horror mai realizzati fondati per l’appunto sul rapporto tra realtà e dimensioni fantastiche, fonti di spavento e angoscia esistenziale. Innovatore, ma anche analizzatore della psiche dei suoi personaggi, spinti a vagare tra ombre e fievoli luci, messi dinanzi a quelle paure che, più o meno consapevolmente, tutti sono costretti ad affrontare perché parte dell’animo umano.
E’ proprio il tema della paura e della sua manifestazione a fare da filo conduttore agli interventi che compongono il documentario Jacques Tourneur, le médium – Filmer l’invisible, appena passato sugli schermi della 72esima Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Venezia Classici – Documentari. Dieci ospiti (tra cui Bertrand Tavernier) raccontano Tourneur e il suo cinema – che spazia dall’horror al noir, sino al western – attraverso immagini tratte dalla sua filmografia in cui spiccano perle come La notte del demonio, L’alibi sotto la neve, Le catene della colpa, e soprattutto la trilogia realizzata alla RKO di Val Lewton (Il bacio della pantera, Ho camminato con uno zombie, L’uomo leopardo).
Curiosamente, il documentario di Alain Mazars segue un percorso a ritroso e affonda sguardo e pensiero nel cinema di Tourneur cominciando dagli ultimi suoi film, per poi risalire ai primi lavori. Ne emergono così le doti di narratore della paura pervasiva e dell’inconscio, autore interessato tanto alla suggestione visiva e uditiva dei suoi film (luci soffuse ed intime, attori invitati a recitare quasi sottovoce) quanto alle sottotracce inserite in filigrana nei racconti, in una complessità stratificata in più livelli di lettura.
Non è probabilmente un documentario adatto a chi vuole conoscere per la prima volta la figura di Jacques Tourneur e il suo cinema, visto che Mazars lascia a margine le poche note biografiche e didascaliche. Tanto spazio è invece dedicato all’arte del raccontare l’invisibile e l’interiorità dei personaggi che ha contraddistinto la produzione del regista francese, con un’estetica in bianco e nero che insegue le atmosfere in chiaroscuro tourneuriane. Del resto nel dibattito che ha seguito la proiezione alla Mostra, lo stesso Mazars ha spiegato il senso di quel “medium” del titolo: “Questa parola è lì per due ragioni. La prima è perché lo stesso Tourneur si autodefiniva un regista ‘medio’, nella norma; la seconda, perché il suo cinema è stato un mezzo di connessione tra il mondo dell’invisibile e quello del reale”.
Sessanta minuti, seppure densi di parole e interventi, mi sono sembrati però troppo pochi per l’obiettivo che si è preposto il film, che tuttavia rimane per lo spettatore un ottimo invito all’approfondimento personale dell’opera di un regista che per molti versi ha tracciato le coordinate di tanto cinema moderno.