La ragazza che sapeva troppo, di Mario Bava

la-ragazza-che-sapeva-troppo-mario-bava-1A tre anni da La dolce vita, film che lanciò nel mito Roma e i suoi frivoli ambienti borghesi, nel 1963 esce La ragazza che sapeva troppo di Mario Bava, che ne sembra invece il contraltare dark e angosciante. E non solo perché nel suo film il regista sanremese fa girovagare i personaggi in una Capitale tetra e deserta, svuotata dei jet set chiassosi e calcata da figure solitarie e poco raccomandabili, da ombre e chiaroscuri; ma anche per i riferimenti diretti alla pellicola di Fellini – dal nome di uno dei personaggi (Marcello) alle citazioni di Via Veneto – ribaltati e filtrati dalla lente di uno sguardo onirico puntato sulla città e sul mondo che ne abita i vicoli, le piazze, le case.

La pellicola di Mario Bava ha però ben altri meriti, a cominciare dalla paternità del thriller all’italiana di cui ha codificato i primi topoi, con la centralità della visione, l’uso degli spazi notturni, fino al killer in preda a turbe psichiche, influenzando non poco un certo cinema italiano successivo, come sarà per esempio il primo di Dario Argento.
Nonostante la trama di La ragazza che sapeva troppo paia bizzarra e al limite del credibile, “disturbata” nella sua tensione da una manciata di scenette da commedia rosa, essa assolve in realtà a una funzione ben precisa nella sua ostentata inverosimiglianza. Nel film seguiamo le vicende romane di Nora (Leticia Roman), americana appassionata di letteratura gialla, che giunge a Roma in visita a un’anziana amica di famiglia, che muore poco dopo il suo arrivo. La ragazza, in un delirio emotivo notturno, si ritrova casualmente testimone di un omicidio, e tuttavia nessuno sembra crederle. Ospitata da un’ambigua signora (Valentina Cortese) nella sua abitazione che dà su Trinità dei Monti, oscuro teatro di omicidi seriali, Nora si ritrova così coinvolta nel misterioso caso del killer dell’alfabeto, come viene battezzato dalla stampa, che forse desidera proprio lei come prossima vittima.

la-ragazza-che-sapeva-troppo-mario-bava-1La narrazione colleziona scene poco credibili, ma è proprio grazie a queste che il film costruisce un clima tanto allucinato da rasentare il sogno (non è un caso probabilmente che alla fine Nora si domandi se la sua disavventura sia stata frutto di un’allucinazione onirica). E’ però la fotografia il vero cardine del film di Bava, che si era già imposto come maestro in questo campo, dai trucchi visivi di I vampiri di Freda sino all’esordio brillante di La maschera del Demonio. E qui entriamo nell’ambito che principalmente interessa questo blog, perché l’atmosfera di mistero e angoscia, principale intento della pellicola per destabilizzare la percezione del reale, si fonda proprio sullo stile noirish della sua estetica.

I chiaroscuri e le ombre minacciose che invadono gli spazi e inquietano la protagonista fanno capo ai noir americani dei decenni precedenti, e così le inquadrature wellesiane oblique e angolate che rimandano alla Vienna notturna di Il terzo uomo. Anche gli interni, ricchi di dettagli e zone d’ombra, con profondità di campo spinte, non sono affatto un rifugio sicuro; sono anzi pieni di segreti e amplificano il senso di disagio allo stesso modo degli ambienti di molti noir anni ’40, che trovavano negli interni opprimenti un peculiare punto di forza. Bava pare insomma aver fatto tesoro delle sue visioni cinematografiche per rivestirle di uno stile proprio, e dedica un’attenzione particolare anche a Hitchcock, che ritroviamo già nel titolo che fa riferimento a L’uomo che sapeva troppo, ma anche in una certa ironia che emerge nel gioco metalinguistico del giallo nel giallo e soprattutto nella scenetta finale con i preti, dal gusto sardonico tipico del regista inglese. Di Sir Alfred, Bava prende in prestito in particolare qualche soluzione di montaggio, come accade in un raccordo tra due sequenze: uno stacco netto a collegare due baci, in una ellissi che non può non ricordare quella al termine di Intrigo internazionale.
LA SEQUENZA
La fuga notturna di Nora dopo i primi dieci minuti è il momento più allucinato del film, e motivo di innesco di tutto il thriller. Sconvolta dalla morte dell’anziana amica della madre, esce di casa e scende le gradinate deserte di Trinità dei Monti. Un ladro le scippa la borsetta, Nora cade e perde i sensi, si risveglia poco dopo. L’immagine comincia allora a sfumare e tremolare, la realtà si distorce e dall’ombra sbuca una donna con un coltello conficcato nella schiena. Un uomo la raggiunge, si guarda intorno circospetto, e si libera del corpo senza notare la povera Nora. Tutto il momento è racchiuso tra due parentesi, quelle dell’effetto ottico che deforma l’immagine, che conferisce alla scena i contorni dell’allucinazione, complice anche la fotografia che ammanta i visi di oscurità lasciandoli nell’ombra, come sagome indistinte di un incubo. La casualità dell’avvenimento è un nodo narrativo propriamente noir, e andrà a cristallizzarsi tra i tratti distintivi del thriller italiano successivo.

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