Brisby e il segreto di Nimh di Don Bluth

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Da un film d’animazione che si apre a lume di candela con le parole “Jonathan Brisby è stato ucciso oggi”, non ci si può certo aspettare una storia di spensierata avventura, né il solito prodotto dedicato a un pubblico prevalentemente infantile, nonostante il racconto sia quello di una simpatica famiglia di topini e di una madre pronta a tutto pur di salvare i propri figli.

Immagino che chiunque abbia visto questo film durante gli anni dell’infanzia (esce nel 1982), come capitato a me, lo ricordi con una nota di malinconia mista a un senso di inquietudine, perché Brisby e il segreto di NIMH, primo lungomentraggio di Don Bluth, è lontanissimo dalle melense e concilianti atmosfere della stragrande maggioranza dell’animazione dell’epoca, quella imperante della Disney con cui molti di noi sono stati svezzati. I buoni sentimenti ci sono tutti, ma allo stesso tempo si palesano i temi del pericolo e della morte: la storia incomincia con un lutto, annotato su di una sorta di diario magico e baluginante da un paio di mani scheletriche, e prosegue attraversando ambienti spesso cupi e misteriosi, minacciosi e perigliosi, nei quali si addentra il cuore impavido della signora Brisby, rimasta vedova senza davvero conoscere le sorti del marito Jonathan. A casa, situata ai margini del campo del fattore Fitzgibbon, l’attendono i quattro figli, di cui uno gravemente ammalato. Ma sta per giungere il tempo dell’aratura, e si fa urgente la necessità di traslocare e di spostare la casa sul lato sicuro della roccia. Per farlo Brisby, semplice topolina di campagna, arriverà a chiedere aiuto alla comunità dei ratti, guidata dal saggio Nicodemus, non prima di aver fatto nuovi incontri e conoscenze e compiuto scelte coraggiose. Il segreto del NIMH, e dell’intelligenza dei misteriosi roditori, verrà così svelato.

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A colpire immediatamente i nostri sensi, sin dai primi secondi, è una forte sensazione di minaccia e di pericolo imcombente che si dirama in tutto il film, e un’estetica espressionista dell’ombra che persiste in sottotraccia anche quando il racconto apre parentesi solari e pacifiche. C’è un mondo di sopra, quello della superficie, dove tutto ha le sembianze di una normale quotidianità, con un paesaggio serenamente bucolico su cui però grava lo spettro dell’aratro distruttore. E c’è poi il mondo sottoterra, cui vi si accede attraverso un fitto cespuglio di rovi, soglia di un luogo oscuro ma al tempo stesso suggestivo e affascinante: luci colorate e scariche di elettricità sfavillano un po’ ovunque in mezzo alle ombre, conducendo la povera Brisby direttamente nel cuore della comunità dei ratti, esseri dotati di una vera e propria intelligenza, acquisita come conseguenza di una precedente esperienza da cavie di laboratorio nel NIMH (National Institute for Mental Health), e che ora vivono nel sottosuolo sfruttando l’elettricità della fattoria.

Per Bluth la storia diventa spunto di riflessione sugli orrori della sperimentazione animale, mostrandoci senza filtri roditori torturati, gabbie, iniezioni e allucinazioni. Lo scontro fra l’idilliaca realtà degli animali di campagna e la presenza umana si esprime in maniera decisamente violenta. Ma trova spazio soprattutto la questione della responsabilità che la facoltà dell’intelletto porta con sé. I ratti appaiono divisi tra la propria natura animale e l’essere soggetti dotati di una mente pensante, e si fanno portatori di un dilemma etico e di una conseguente crisi di identità (“non possiamo più continuare a rubare l’elettricità“, dicono). Non è un caso, del resto, se lo stesso capo dei ratti si chiami Nicodemus, richiamando il personaggio del Vangelo di Giovanni che mentre di giorno simulava l’adesione al fariseismo, di notte ascoltava le parole di Gesù.

Don Bluth sceglie la strada della non censura e disegna, non senza una certa poesia e un gusto gotico, luoghi insidiosi, omicidi e pugnalate, spade insanguinate, topini torturati, enormi gufi dagli occhi incandescenti. E’ un mondo irto di difficoltà, in cui salvezza e felicità passano attraverso prove e ostacoli, sino all’ultimo grande sacrificio. Nulla ferma la umile quanto tenace Brisby, piccola eroina per la quale anche l’ultima dimostrazione di coraggio, quella di usare un medaglione magico, si rivela un doloroso passaggio obbligato per salvare la famiglia. Temi non proprio leggerissimi per un pubblico di bambini, ma è anche questo uno dei motivi che hanno reso Brisby e il segreto di NIMH un’opera che lascia il segno. E che, tra l’altro, hanno fatto sì che fin da subito Don Bluth, esule della scuderia di Walt Disney e fondatore a fine anni ’70 di una propria casa di produzione, si guadagnasse proprio l’etichetta di anti-Disney.
Resta memorabile l’animazione di tutti i giochi di luce, dalle semplici lampadine alla violente scariche elettriche, sino agli occhi inquietanti e inanimati del Gufo e di Nicodemus, di grande impatto e suggestione.

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