Con La settima vittima comincio a recuperare tutto il celebre ciclo di Val Lewton, mitico produttore di svariati successi horror-noir degli anni ’40 alla RKO, basati sulla suggestione di un orrore non esibito ma suggerito, visto e non visto, celato nell’ombra.
Ammetto che la prima visione di questo film mi ha lasciato una sensazione di freddezza e una punta di delusione, provenendo esclusivamente dai lavori più celebrati e blasonati di Lewton, quelli realizzati assieme al regista Jacques Tourneur tra il ’42 e il ’43. Un’impressione tuttavia solo passeggera, anche se qui, effettivamente, si ritrovano meno i tratti misteriosi che avevano contraddistinto le precedenti pellicole, disciolti in un maggiore realismo. Lewton e Mark Robson, alla prima di quattro collaborazioni, segnano un netto scarto e abbandonano il look da fiaba nera, optando per una razionalizzazione del fantastico e trasferendolo in un contesto più concreto e tangibile, forse proprio per questa ragione ancora più inquietante.
Ci si ritrova di fronte a un classico caso di persona scomparsa, e alle vicende che portano al suo ritrovamento; un percorso di crescita e perdita dell’innocenza di cui è protagonista Mary (Kim Hunter), impegnata senza sosta nelle ricerche della sorella Jacqueline svanita nel nulla senza che nessuno sappia dove si trovi. O almeno in apparenza, perché la storia è scandita da continui svelamenti che seguono i meccanismi della detective story, e che introducono la sprovveduta ragazza nelle pieghe più buie del quotidiano a contatto con una setta dedita al culto del demonio, pronta a sacrificare per la settima volta un adepto in nome della segretezza del culto.
Il film quindi si articola principalmente sullo scontro tra bene e male, facendo emergere quest’ultimo poco a poco non dal fantastico o da motivi prettamente soprannaturali: l’orrore si annida tra gli stessi esseri umani, confinato in stanze chiuse ma anche esposto alla luce del sole. Le azioni dei settari, qui nient’altro che normalissime persone così come li dipingerà Polanski in Rosemary’s Baby, non sono limitate soltanto agli incontri in lussuosi salotti, ma si inseriscono nella vita comune, se ve n’è bisogno. Tra le scene di maggiore impatto del film c’è appunto quella della doccia di Mary, che anticipa la più celebre in Psyco: uno degli adepti si introduce in casa della ragazza, tenta di spaventarla e di spingerla ad abbandonare la ricerca della sorella, mentre la sua silhouette si staglia sulla tendina della doccia disegnando un contorno simile a quello di un diavolo con le corna.
Ma non si tratta dell’unica scena carica di inquietudine: sempre basate sull’idea del pericolo celato alla vista, ci sono almeno altre due sequenze che vale la pena di ricordare. La prima è quella che vede sparire nel buio il detective privato che decide di aiutare Mary. L’altra, più dinamica e articolata, è quella della fuga finale di Jacqueline dalla setta, una corsa nella notte lungo una strada isolata con sguardi e mani che avanzano nell’oscurità. Sono alcune delle poche occasioni in cui si rivela tutta la tradizionale estetica lewtoniana del chiaroscuro, la cui angoscia in questo film sembra tradursi in un fermo riferimento al desiderio di morte, tema sotterraneo di tutta la narrazione che deve aver colpito non poco il pubblico dell’epoca. Del resto i versi di John Donne che ascoltiamo in apertura e in chiusura del film non fanno altro che dare voce alle pulsioni suicide di Jacqueline, che nella sua spoglia stanza ha già preparato un cappio da cui è intimamente attratta, e che col suo volto pallido incorniciato dal caschetto nero assume le sembianze di un angelo della morte.