Il grattacielo tragico di Henry Hathaway

Il grattacielo tragico Henry Hathaway 1946

A leggere il titolo italiano, Il grattacielo tragico, uno potrebbe immaginarsi un climax di azione e tensione sulla cima di un altissimo edificio metropolitano, o quantomeno un inseguimento serrato lungo una vertiginosa scalinata. Invece nel film di Henry Hathway, che per nome ha in realtà un più esaustivo The dark corner, di tutto questo non v’è l’ombra, il grattacielo del titolo rimane confinato in una breve (e brutale) scena.
La mia osservazione però poco ha da spartire con i pregi di questo bel film nero, che si tiene alla larga da particolari accelerazioni del ritmo o sequenze ansiogene, forte di uno stile asciutto che punta a raccontare senza eccessi di sorta, facendosi aiutare dalla suggestione delle ombre, dalla moltiplicazione del reale riflessa da specchi sparsi un po’ ovunque, dai doppi giochi mossi dai personaggi, in una sorta di filtro che se da una parte limita l’approfondimento di psicologie e ossessioni sentimentali, dall’altra carica la storia di inquietudine e di sottile onirismo.
La vicenda narrata ricade del resto nel classico tema noir dell’incubo ad occhi aperti, che all’eroe perseguitato lascia poco respiro assieme alla sensazione di essere in prossimità del capolinea della propria libertà, o esistenza: in questo caso protagonista è il detective privato Bradford Galt (Mark Stevens), deciso a rifarsi una vita dopo aver trascorso un periodo in galera per via del tradimento dell’ex socio Tony Jardine. Nonostante i buoni propositi, Brad si accorge di essere vittima di una nuova trappola, e grazie alla complicità della fida segretaria Kathleen (Lucille Ball) finirà per scoprire che a tramare contro di lui non è più l’ex amico ma il collezionista d’arte Hardy Cathcart (Clifton Webb).

Il grattacielo tragico si presenta come un film dall’intreccio lineare, in cui Hathaway si allontana dallo stile semidocumentaristico dei film precedenti (La casa della 92a strada, Il 13 non risponde) per raccontare il “dark corner” del protagonista, l’angolo buio in cui si sente messo alle strette dagli eventi, in un clima da persecuzione non molto torbido, esente da particolari ambiguità legate tipicamente, nell’universo noir, ai temi dell’arte e dell’ossessione. In particolare il regista punta a tradurre visivamente il gioco di doppiezze che coinvolge tutti i personaggi, i quali in un modo o nell’altro celano segreti propositi, oppure sono posti in contraddizione. Sono quindi tanti gli specchi che incontriamo lungo il film, piccoli e grandi, così come marcate sono le ombre proiettate dai personaggi, spesso addirittura doppie. E lo stesso accade con i riflessi, particolarmente in una scena: intenta a preparare la fuga con l’amante, Mari viene sorpresa dal marito Cathcart, mentre la macchina da presa si sposta sul loro teso scambio di battute, e gli specchi moltiplicano oggetti e corpi quasi a comunicare il distacco della donna da una realtà di cui sta perdendo le coordinate. Doppio di se stessa, idea che si ritrova anche nell’arte (ancora un doppio, copia del reale), nel grande quadro che il marito custodisce in cassaforte, un ritratto che assomiglia incredibilmente alla ragazza e che Cathcart sembra amare molto più della moglie. Questo doppio femminile si realizza poi anche nel contrasto tra la segretaria Kathleen e la stessa Mari: l’una bionda e materna, l’altra bruna e sfuggente, insoddisfatta del matrimonio e pronta alla fuga (ben lontana però dalla classica femme fatale).
Si distingue ancora una volta Clifton Webb, che qui come già in Laura di Otto Preminger veste i panni del subdolo e smilzo intellettuale, figura sottile ed eccentrica quanto pericolosa.


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