Una città perennemente al buio, condannata chissà come e perché al reiterarsi delle tenebre, mentre nell’oscurità avanzano forze sinistre sotto le sembianze degli stranieri, e la realtà diventa un fosco enigma da sciogliere.
E’ il mondo di Dark city, film del 1998 con cui Alex Proyas ritorna, dopo il suo Il corvo (1994), a confrontarsi con le atmosfere cupe della notte, mettendo piede stavolta sul terreno della fantascienza. La pellicola è costruita in maniera evidentissima su una struttura narrativa fortemente noir, ma meno elaborata se la compariamo ad altri casi simili in cui il cinema nero ha contaminato soggetti sci-fi (Blade runner).
Il film si apre all’insegna di una duplice oscurità, da cui deriva poi il titolo: c’è l’assenza di luce solare, che rende la notte infinita, e c’è l’oscurità della memoria, l’oblio dei ricordi e della propria identità. John Murdoch (Rufus Sewell) si risveglia nudo nella vasca da bagno di un hotel senza sapere chi è. Nella stanza il cadavere di una donna è riverso sul pavimento, strani simboli disegnati sul suo corpo. John diviene subito un fuggitivo, da una parte accusato di omicidio plurimo dall’ispettore Frank Bumstead (William Hurt), dall’altra braccato dagli stranieri, esseri alieni che hanno preso il controllo sugli uomini e cercano di scoprire il segreto della loro umanità, dotati di poteri mentali che, stranamente, sembra possedere anche John. L’incontro con la moglie Emma (Jennifer Connelly) e il dottor Schreber (Kiefer Sutherland) metterà in moto la corsa verso la soluzione finale.
Basta poco per cogliere tutta l’impalcatura noir del film e i suoi temi più comuni: abbiamo il protagonista senza memoria alla ricerca di una verità, inseguito e accusato ingiustamente di omicidio; lo sbirro, il nightclub con l’immancabile languida cantante (quasi catatonica Jennifer Connelly nella sua interpretazione), l’ambiente urbano, le strade notturne, ombre marcate in quantità.
Tralasciando tutto il richiamo alle atmosfere del Batman burtoniano e le considerazioni su come il film abbia anticipato il tema della realtà illusoria, cardine del successivo Matrix, è interessante notare come Dark city sembri costruito da Proyas più come un neo-noir che un lavoro di fantascienza, e a corroborare questa idea ci sono diversi elementi, primo fra tutti quello della grande città intesa come realtà labirintica e pericolosa, sfondo di una storia da incubo. Ma ci sono anche gli stranieri, che travestiti da gangster anni ’40 minacciano e pestano chi non vuol dare loro informazioni, in stanze fiocamente illuminate. Questa fotografia costantemente low key diventa poi funzionale a tutta la riflessione sulla percezione del reale, tema noir portante del film: il buio che avviluppa ogni luogo cela il mondo dalla visione del protagonista, che già fatica a dare un senso a se stesso e a ciò che lo circonda, comprese le persone, che ogni dodici ore cambiano costantemente identità dimenticandosi la vita precedente. La realtà è sfuggente, in continuo mutamento fisico (gli stranieri la modellano con la forza del pensiero), angosciosa e vertiginosamente onirica.
Il ritmo dato alla narrazione segue questa tendenza, e così pure per lo spettatore tutto appare di difficile comprensione, quasi avvicinandosi all’astrazione. Neppure il finale, lieto solo in apparenza perché la realtà rimane un’illusione, apre uno spiraglio di luce nell’oscurità di questo film dove l’apparato estetico si rivela l’aspetto più riuscito.